
La nausea della sostenibilità: sintomi, cause e rimedi
Puoi ascoltare qui l’articolo: Nausea della sostenibilità
Dalla nascita di Dress Ecode questa è la prima pausa così lunga dagli articoli. Non è solo per gli impegni che si susseguono, né per una perdita di motivazione. Se c’è una cosa in cui continuo fortemente a credere è nella necessità di condurre una vita più responsabile, con attenzione alle persone, alle risorse utilizzate, alla natura. È qualcos’altro, che pian piano ha contributo a un arresto.
Ho la nausea della sostenibilità.
Le cause? Abusi, leggerezza, debole competenza.
Nausea non del concetto che evoca, né dell’applicazione pratica nella vita, bensì della parola. Negli ultimi mesi è arrivata a circondarmi ovunque. Un po’ sarà perché sui social compaiono contenuti in base alle preferenze personali. Il punto però è che ormai è oggettivamente in ogni dove. Siamo in una fase in cui la maggior parte delle aziende dichiara di essere sostenibile, i brand promuovono contenuti sulla sostenibilità, gli/le influencer ne parlano, i media, i social media, la tv, gli imballaggi dei prodotti al supermercato, i cartelloni pubblicitari, i jingle radiofonici, gli spot televisivi, i profili social privati non hanno remore a sfoderarla. Chiunque ne parla e ovunque se ne parla. Fino alla nausea.
“Ammetto una lunga e crescente angoscia per l’uso improprio della parola “sostenibile” e dei suoi derivati. In effetti sono ben noto per cantare e ballare ogni volta che l’argomento viene fuori. Sono sicuro che i miei amici e colleghi gemono ogni volta che si presenta il problema. Sono abbastanza bravi da assecondarmi. Anche quelli che possono dire che sono cinico spesso condividono le mie preoccupazioni – e ogni anno l’abuso peggiora. Quindi quest’anno inauguriamo un nuovo Transition Town High Wycombe Award. Si tratta del “LA-LA Sustainability” – il premio Laughable Abuse of Language (Sostenibilità)”.
“L’importante è che se ne parli”, controbatte puntualmente qualcuno. Ne siamo davvero sicuri?
Chiunque ne parla.
Vedo persone che conosco da tanto e da poco tempo, dal vivo e sui social, che dall’oggi al domani si presentano come esperti di sostenibilità, senza formazione, senza studi, senza basi. Mi accorgo di ex-colleghi, che ricordo lontani anni luce dal concetto di sostenibilità ambientale e sociale, sorvolando sull’etica, ora in posizioni aziendali di vertice in quest’area (qualcuno allora mi derideva pure per le preoccupazioni per l’impatto ambientale). Sui social media, leggo e sento cose che non sono di vero d’aiuto per alleggerire l’impronta umana sull’ambiente, perché questo alla fine dovrebbe essere l’obiettivo del parlare di sostenibilità.
Non basta essere autodidatti, leggere articoli, qualche libro, un breve corso, e neppure aver prodotto una linea di abbigliamento o di prodotti “sostenibile”. Non si improvvisano le misure per salvaguardare l’ambiente, né nella moda né in altri settori. Non è qualcosa che riguarda solo la sostenibilità: il nostro è un tempo di confini labili tra scienza e intrattenimento, in cui liberamente ci si improvvisa medici o chimici o ingegneri. Le voci autorevoli non sono più gli esperti del settore, ma i personaggi più seguiti, che ascoltiamo pronunciarsi su qualsiasi argomento perché ci sono simpatici, li sentiamo affini o perché se hanno seguito allora devono essere bravi. Siamo nell’epoca del “anche tu puoi creare un corso”, dell’estrema fiducia nella formazione da autodidatta, de “l’ho letto su internet (quindi è un dato di fatto)” senza curiosità né spessore per approfondire fonti e veridicità.
Ovunque se ne parla.
“Cos’è il design sostenibile? È un concetto che è ovunque, ma nessuno sembra sapere esattamente cosa significhi” (Joshua Bolchover 2012, Vitamin Green).
Sostenibilità – abusata, appicciata su siti, pagine, profili, prodotti, giornali, video, articoli, si spoglia di ogni significato e perde credibilità. Mi viene in mente una vignetta del comico digitale Xkcd: l’uso della parola con la S è di per sé insostenibile, e a un certo punto in un futuro non troppo lontano (2109) l’abuso costante la renderà priva di significato. Ho la sensazione che abbiamo anticipato i tempi, non sarà necessario attendere così tanti decenni.
La diffusione esponenziale non è una sensazione personale. Secondo Global Language Monitor, “sostenibilità” è la decima parola tra le più utilizzate nel mondo (2020). Considerando che la metà degli altri termini nella top ten sono collegati a un unico fenomeno, la pandemia, non è male come posizionamento.
Il 98% dei 50 migliori marchi di Forbes ha utilizzato almeno un cliché sui propri siti. In media hanno usato la parola ‘sostenibilità’ dieci volte per pagina web, mentre i principali marchi sostenibili (come Patagonia, Ben & Jerry’s e Allbirds) usano la parola solo una volta (Chen 2021).
Un concetto andato a male?
Advertising Age ha definito la sostenibilità una delle parole “gergali più gergali” del 2010 che “vorresti smettere di dire”. Perché? “La sostenibilità è un buon concetto andato a male a causa di un uso improprio ed eccessivo. È diventato un toccasana morbido e piacevole per fare la cosa giusta. Usato correttamente, descrive le pratiche attraverso le quali l’economia globale può crescere senza creare un fatale drenaggio di risorse. Non è sinonimo di ‘verde’. Non c’è da meravigliarsi che una parola del genere sia stata usata indiscriminatamente da politici, imprese e media perché non solo la sostenibilità è un tema caldo di cui tutti vogliono promuovere se stessi come all’avanguardia, ma l’uso improprio è reso facile a causa della mancanza di una definizione universalmente condivisa. La difficoltà nel trovare una definizione condivisa è complicata dal fatto che la sostenibilità si applica a una moltitudine di questioni dinamicamente interrelate – ambientali, economiche e sociali – per citarne alcune” (Lammers 2011).
Diciamolo, l’abuso rischia di provocarci antipatia, suscitando insofferenza soprattutto in chi fugge la banalità e la ripetitività. Il linguaggio sulla sostenibilità è spesso noioso e pieno di cliché. L’uso incauto del termine provoca confusione e scetticismo. Riduce la volontà di agire e di intervenire sul tema. Chi è esperto storce il naso e, se ne ha voglia, con scetticismo si avvicina. Chi non è interessato prova noia se non sviluppa un’orticaria. Chi è nuovo ascolta le prime volte in cui ne sente parlare, per poi accorgersi che da una parte una cosa è sostenibile, da un’altra il contrario. Il peggio è quando chi in buona fede si avvicina, segue l’indicazione “sostenibile” e scopre successivamente che in realtà non lo è sentendosi preso in giro: abbiamo perso per sempre un/una possibile compagno/a di viaggio verso uno stile di vita più responsabile.
“È tempo di bandire la parola vuota “sostenibilità”. La parola è diventata così corrotta da non solo essere priva di significato, ma addirittura oscurare i veri problemi che devono essere affrontati. Per cominciare, dobbiamo attestare che tutte le attività umane hanno impatti, e questi possono andare ben oltre gli attuali indicatori di sostenibilità. Tuttavia, dobbiamo assumerci la responsabilità di sforzarci di minimizzarli o mitigarli”.
Marley Jack, 2013
Tutto ciò è un peccato.
La parola sostenibilità è un modo utile per descrivere come un uso più efficiente delle risorse può aiutare a preservare le condizioni per una crescita economica a lungo termine (Cummins Kate 2012). Sarebbe un peccato bandirla, rinunciando al richiamo al senso più profondo che tutte le attività umane hanno un impatto e al concetto di disponibilità delle risorse per la nostra e le future generazioni, che dovrebbero essere sufficienti per farci desiderare di essere sostenibili.
Il tema interessa effettivamente sempre di più. Su Google negli ultimi 5 anni (novembre 2016 – novembre 2021) la ricerca in rete del termine è in aumento (nel grafico qui sotto, i numeri rappresentano l’interesse di ricerca rispetto al punto più alto del grafico in relazione alla regione e al periodo indicati. Il valore 100 indica la maggiore frequenza di ricerca).
Quindi, che fare?
Il dialogo sulla sostenibilità aiuta ad aumentare la consapevolezza e stimolare l’azione, ma utilizziamola con più parsimonia, cognizione di causa, professionalità. Parliamone in modo competente e coinvolgente, chiarendo a cosa ci stiamo riferendo, con dati, fonti, ricerche, senza improvvisazione. Smettiamo di buttare lì il termine, anche se in buona fede e con le migliori intenzioni diverse dal voler cavalcare la cresta dell’onda. Coinvolgiamo un esperto, oppure a volte “scegliamo il silenzio” (Gheno 2019), facendo il proprio lavoro e non quello di un altro.
Se da una parte è vero che abbiamo bisogno di criteri chiari e oggettivi, sia per definire parole in modo universalmente valido (sono in arrivo) sia per identificare gli esperti di sostenibilità, dall’altra possiamo nel frattempo – come per altri campi – aprire gli occhi e cercare di tornare a credere in chi ha una formazione professionale, unita a dedizione e impegno.
Personalmente, vorrei provare a parlarne in modo diverso, sperimentando, sulla base di quanto imparato negli anni. Per non annoiare chi legge, e anche per non annoiarci noi. Inoltre, sto riducendo pagine, profili e siti da visualizzare, per evitare amarezza e gastriti davanti all’uso improprio e leggero della sostenibilità dove non ci sono competenze. Sapere tutto in modo approfondito di un tema così vasto è difficile, ma tra tutto e niente ci sono vie di mezzo. Infine, volentieri supportiamo aziende, brand e designer nel comunicare la sostenibilità con trasparenza ed etica lontano da banalità e greenwashing.
Ti ritrovi anche tu nei sintomi descritti? Se sì, raccontaci la tua esperienza.