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Luxurywashing: lusso fa rima con etica?

Se chiedessimo a chi acquista capi firmati da migliaia di euro se ritiene quei prodotti più sostenibili, molti risponderebbero di sì. Il prezzo elevato viene spesso interpretato come garanzia di qualità, tracciabilità, attenzione al lavoro umano.

Eppure, lo scandalo che ha travolto recentemente Loro Piana, lo storico marchio del cashmere italiano coinvolto in un’indagine per caporalato, incrina questa convinzione.

Non è un caso isolato. Max Mara, Dior, Armani, Valentino sono altri brand recentemente coinvolti in casi di condizioni di lavoro inadeguate. È un sintomo di un problema più profondo. In questo articolo-podcast ci addentriamo nel fenomeno del luxurywashing, ovvero la costruzione di un’immagine “green e etica” che nasconde pratiche non sempre coerenti, anche nel mondo del lusso.

Quali sono le tattiche di greenwashing più utilizzate dai brand di lusso?
  • Creazione di capsule o collezioni limitate (ad esempio materiale biologico o riciclato), mentre la produzione principale resta insostenibile.
  • Promozione di carbon neutrality attraverso compensazioni (piantagioni, crediti), ma senza ridurre realmente le emissioni interne.
  • Certificazioni auto‑prodotte usate in modo ingannevole. Vengono pubblicizzate certificazioni proprie o partnership con enti eco‑apparenti, ma spesso coprono solo una parte minima della supply chain. Alcune certificazioni non sono indipendenti o non applicate su tutta la linea.
  • Organizzazione di eventi “green” (come sfilate carbon neutral) per creare percezione di impegno, senza modificare la produzione generale.
  • Investimenti in iniziative sostenibili atti a migliorare i punteggi ESG (Ambiente, Sociale e Governance), mentre il modello operativo centrale resta intatto — quindi l’immagine verde viene potenziata senza una reale trasformazione.

Se vuoi approfondire, questi sono i 7 peccati del greenwashing.

Uno studio condotto dalla Commissione Europea nel 2024 ha scoperto che un gran numero di aziende presenta affermazioni non comprovabili. L’indagine ha rilevato che il 53% delle affermazioni “green” è vago, fuorivante o infondato, il 40% non è supportato da prove concrete e il 50 percento di tutte le etichette verdi presenta verifiche deboli o inesistenti. Nella moda, un rapporto del 2021 della Changing Markets Foundation ha dimostrato che circa 6 affermazioni green su 10 nel settore erano vaghe, infondate o potenzialmente fuorvianti.

I dati che smontano il mito

Antoine Arnault, figlio di Bernard Arnault, proprietario di LVMH, ha affermato pubblicamente che i beni di lusso sono “sostenibili per natura”. Ha fatto questa dichiarazione in occasione di un summit sulla sostenibilità nel settore della moda, ma è davvero così?

Uno studio finanziato da Primark, condotto dalla University of Leeds in collaborazione con Hubbub (2022-2024), ha rivelato che i capi di lusso non durano più di quelli fast fashion. Alcuni dei capi più costosi avevano una durata da media a scarsa, come una maglietta da uomo dal prezzo compreso tra 36 e 45 sterline, che si è classificata al 9° posto su 17 articoli. Il prezzo, quindi, non è indice di maggiore durabilità o qualità strutturale.

Il Business of Fashion Sustainability Index 2023 assegna punteggi sotto la sufficienza alla maggior parte dei brand di lusso, per mancanza di trasparenza nelle filiere, soprattutto per quanto riguarda condizioni di lavoro, tracciabilità delle materie prime e gestione dei rifiuti. Non c’è evidenza di maggiore sostenibilità nei marchi luxury rispetto a quelli fast fashion. LVMH non è più sostenibile di H&M o Inditex (di cui fanno parte Zara, Pull&Bear, Bershka).

Fonte: Business of Fashion

Il punto non è solo verificare se i materiali sono biologici o se le emissioni vengono compensate. La questione è più profonda.

Il lusso tradizionalmente si lega a valori estrinseci come la ricchezza, il prestigio e lo status sociale. Sono elementi che parlano più di “apparire” che di “essere”. Al contrario, la sostenibilità si fonda su valori intrinseci come la giustizia sociale, il rispetto per l’ambiente e la connessione autentica con il mondo naturale. C’è una tensione evidente tra due visioni del mondo: da un lato, il lusso come simbolo di successo individuale; dall’altro, la sostenibilità come impegno collettivo verso il bene comune. Conciliarli non è semplice. Secondo Holmes e Bendell, i brand di lusso rischiano di entrare in contraddizione quando cercano di abbracciare la sostenibilità: come possono promuovere sobrietà, giustizia ed equilibrio con la natura, mentre allo stesso tempo alimentano desideri legati al potere, alla distinzione e al privilegio?

Quando un marchio di lusso si proclama sostenibile, la domanda scomoda diventa: sta davvero cambiando paradigma o semplicemente rivestendo vecchi valori con una patina verde? Il rischio è che la sostenibilità venga strumentalizzata per rafforzare proprio quei valori estrinseci che invece dovrebbe mettere in discussione.

E così il lusso resta accessibile a pochi, mentre l’impatto – ambientale e sociale – ricade su molti. La sostenibilità è svuotata del suo significato più autentico, ridotta a strumento di marketing per nobilitare ciò che di nobile ha poco.

La distanza tra immagine e realtà

Il problema del luxurywashing non sta solo nella mancanza di coerenza, ma nella narrazione costruita. Il linguaggio evocativo, le campagne emozionali, le capsule “eco” o le limited edition sostenibili diventano strumenti di distrazione, quando la base produttiva resta opaca e in parte illegale. Ricordo che, durante il corso Sustainable Business Models in the Luxury Sector, una studentessa presentò Loro Piana come esempio di brand sostenibile, ammaliata da fonti trovate online sull’impatto positivo del marchio. In passato, Loro Piana è stata accusata di costruire la propria narrazione sostenibile attorno alla vicun˜a (un materiale pregiato prodotto con il pelo della vigogna, un camelide peruviano che vive sulle Ande), senza però fornire dati trasparenti sull’effettivo impatto socio-ambientale e sui benefici restituiti alle comunità andine coinvolte nella sua raccolta.

Nel caso Loro Piana, azienda del gruppo LVMH, il cashmere più pregiato al mondo è stato cucito da lavoratori sottopagati, costretti a turni massacranti, in ambienti insalubri.

Spendere 2.000 euro per un maglione e scoprire che chi l’ha realizzato prende 4 euro l’ora lavorando fino a 90 ore alla settimana fa vacillare tutto il senso del valore.

Oggi sappiamo che anche i marchi più prestigiosi affidano la produzione a stabilimenti in Paesi come Croazia, Moldavia, Albania. Prada, Hugo Boss e Dolce & Gabbana e altri brand sono stati citati in un recente rapporto di Clean Clothes Campaign sulle condizioni di lavoro nel cosiddetto cluster tessile euro-mediterraneo — un’area di produzione che comprende Paesi dell’Europa orientale.

Il rapporto evidenzia che in Croazia, ad esempio, alcuni fornitori di Hugo Boss pagano salari pari a circa un terzo di quanto sarebbe considerato un salario dignitoso. Un portavoce di Hugo Boss ha risposto affermando che l’azienda richiede ai propri fornitori il rispetto delle normative nazionali sul salario minimo. Tuttavia, ha anche specificato che la negoziazione salariale è una questione che riguarda esclusivamente il datore di lavoro locale, i dipendenti e le istituzioni competenti di ciascun Paese, pur dichiarandosi “aperta al dialogo costruttivo”.

Secondo il report, Germania e Italia rappresentano le principali destinazioni di questi capi prodotti nel cluster euro-mediterraneo. Non solo marchi del fast fashion, come Primark e Tesco, ma anche brand di lusso come Versace, Dolce & Gabbana, Armani e Max Mara si riforniscono da questi stabilimenti.

Clean Clothes Campaign sottolinea che nessuno dei marchi di fascia alta menzionati ha risposto ufficialmente alle accuse contenute nel rapporto. Hugo Boss, che aveva ricevuto un’anteprima dello studio Stitched Up, non ha fornito dichiarazioni specifiche sui risultati emersi (fonte The Guardian).

Il settore del lusso può sembrare al di fuori di un sistema che trasferisce la produzione dove i costi bassi dei lavoratori consentano un aumento dei profitti. Invece dietro la facciata di artigianalità, design, qualità, unicità e sostenibilità, sbandierata nei report pubblicati online, ci sono le stesse fabbriche e le stesse condizioni di lavoro.

Su Reddit compaiono commenti come:

“I brand di lusso non ti vendono solo un capo, ma un’identità. Se ammetti che quell’identità sfrutta, il sistema collassa”

Quello che mi dà più fastidio: se potessi permettermi di pagare un ricarico di diverse migliaia di dollari su una borsa, vorrei sapere per certo che una parte proporzionale di quel denaro viene destinata a garantire una produzione e condizioni di lavoro di livello assolutamente mondiale. (…) Per il prezzo di una borsa Dior non ci sono scuse. (…) Quel ricarico del lusso dovrebbe estendersi a ogni fase del processo produttivo. (..) Un’altra cosa che mi dà fastidio: quasi tutti i marchi di borse, sia di lusso che di fascia media, hanno un’intera sezione sul loro sito web dedicata a tutte le loro iniziative di sostenibilità e a tutte le certificazioni green delle loro fabbriche… ma MOLTO pochi (e quasi nessuno di quelli di lusso) hanno informazioni sulle condizioni di lavoro etiche per le persone.

La fortezza del lusso, dietro cui i brand hanno nascosto scelte via via più simili al fast fashion, sta crollando.

Le nuove regole in arrivo

La buona notizia è che qualcosa si muove. La Commissione Europea sta introducendo nuove normative come quelle derivanti dal Green Claims Directive, che obbligheranno i brand a fornire prove verificabili delle loro affermazioni ambientali e sociali. Sarà più difficile nascondersi dietro slogan vaghi o certificazioni opache.

Nel frattempo, report come quello del BSI (British Standards Institution) suggeriscono che i brand devono ristrutturare l’intera filiera, non solo la comunicazione, se vogliono evitare il crollo di fiducia da parte dei consumatori.

Cosa possiamo fare noi?

Da consumatori, abbiamo più potere di quanto sembri. Possiamo:

  • Chiedere trasparenza: esigere che i brand dichiarino chiaramente dove e da chi è stato fatto un prodotto.
  • Affidarci a strumenti di valutazione indipendenti (come Good On You).
  • Scegliere second-hand o piccoli brand con filiere corte e tracciabili.
  • Diffidare dai claim vaghi come “green”, “eco”, “responsabile” senza dati a supporto.
In quale lusso crediamo?

Il caso Loro Piana è solo l’ultima crepa in un sistema che si regge sul mito dell’eccellenza senza macchia. Ma l’eccellenza, senza rispetto per i diritti umani e l’ambiente, è solo facciata.

Esistono realtà che cercano di riscrivere il significato di lusso: lo fanno con gesti lenti, manifattura consapevole, filiere trasparenti. Eppure anche loro si confrontano con un sistema che premia l’esclusività più della giustizia.
In quale lusso crediamo, allora?

Forse in uno che non ha bisogno di sembrare etico, perché lo è davvero. In quello  dei piccoli brand. Che non grida, ma sussurra. Non si misura in status, ma in tempo, cura, giustizia. Che non promette la perfezione, ma prova almeno a non costruire il proprio valore sul silenzio di chi cuce nell’ombra. Esiste un lusso che non ha bisogno di sembrare etico, perché lo è davvero. Siamo pronti a riconoscerlo, anche se non ha un logo noto?

 

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