 
	Moda e normative sulla sostenibilità: rischi, sanzioni e opportunità
 Non basta creare prodotti in modo più green ed etico. Ci sono altri passi necessari nella moda e nel tessile per conquistare la fiducia delle persone, mostrare l’impegno nella sostenibilità ed evitare sanzioni e multe. In vista delle nuove normative, ne parliamo con le avvocate Camilla Gentile e Isabella Carantani dello studio legale Close to Ius, con cui stiamo organizzando un workshop dedicato: Sostenibilità e Normative Tessili.
Non basta creare prodotti in modo più green ed etico. Ci sono altri passi necessari nella moda e nel tessile per conquistare la fiducia delle persone, mostrare l’impegno nella sostenibilità ed evitare sanzioni e multe. In vista delle nuove normative, ne parliamo con le avvocate Camilla Gentile e Isabella Carantani dello studio legale Close to Ius, con cui stiamo organizzando un workshop dedicato: Sostenibilità e Normative Tessili.
Isabella supporta le aziende nell’adottare soluzioni legali mirate per la gestione etica e trasparente delle pratiche aziendali, specializzandosi in proprietà industriale, sostenibilità ambientale e sociale e comunicazione trasparente. Camilla si concentra su consulenze legali nell’ambito della sostenibilità e della responsabilità ESG, aiutando le aziende a conformarsi alle normative di settore e a promuovere strategie sostenibili.
Indice dei contenuti:
1. Introduzione alla Sostenibilità nella Moda 0:00
• Necessità di prove di sostenibilità
2. Ruolo degli Avvocati nella Sostenibilità 0:24
• Supporto legale per aziende
3. Normative e Responsabilità 1:38
• Responsabilità condivisa (consumatori, aziende, governo)
• Adattamento alle normative
4. Case Studies Emblematici 2:43
• Caso di un brand tessile
• Caso di prodotti cosmetici
5. Rischi Connessi alla Comunicazione e al Marketing 11:19
• Uso di slogan vaghi e generici
6. Impatti della Comunicazione della Sostenibilità 12:28
• Rischi di greenwashing
• Tipologie di washing
7. Approccio Normativo e Competitivo 15:17
• Necessità di conformità alle normative
8. Basta la certificazione? 17:11
9. Le normative: ostacolo o opportunità per i brand sostenibili? 23:46
10. Conclusioni e Raccomandazioni 29:25
• L’importanza della consulenza e della formazione
Ascolta qui l’intervista! 👇
Trascrizione dell’intervista:
Spesso ci capita di parlare della necessità di lavorare su più fronti per ridurre l’impatto negativo, ambientale e sociale del settore e della moda del testile. Quando noi ci rivolgiamo al pubblico, che chiamiamo poi consumatori, sentiamo dire che le aziende devono fare la loro parte.
Quando parliamo alle aziende ci dicono che serve l’intervento dei governi con delle normative più severe. Così oggi eccoci qui ad affrontare l’argomento delle normative che sono arrivate e che stanno arrivando, Fermo restando che ognuno – consumatore, azienda e governo – ha la sua fetta di responsabilità, siamo qua proprio a parlare oggi di quello che anche le aziende hanno chiesto: le normative.
Mi sembra però che quando poi le normative sono arrivate, stanno arrivando, i brand sentano molto lontana la necessità di metterle in atto già da ora e di conformarsi, non aspettando ulteriormente altro tempo, percependo magari come lontana la possibilità di ricevere sanzioni o multe, o qualcosa che è ancora appunto così distante dalla loro realtà quotidiana. Noi vorremmo evitare soprattutto ai piccoli e medi brand di trovarsi impreparati nel momento in cui tutte queste normative diventano, magari dall’oggi al domani in atto, cogliendoli impreparati e trovandosi ad affrontare ostacoli dal punto di vista di compliance legale. So che avete seguito anche alcuni casi interessanti, ne avete uno da raccontare?
 Camilla: “Sì, abbiamo seguito diversi casi, sicuramente un caso che possiamo ritenere emblematico è stato quello di un brand tessile. Si occupava appunto di moda, e utilizzava degli slogan riferiti ai propri prodotti, proponendoli come sostenibili a impatto zero, quindi tutta una serie di requisiti sicuramente al giorno d’oggi molto interessanti per chi si interessa di sostenibilità. Il problema di questo brand non era tanto effettivamente la presenza di queste qualità quanto la mancanza di prove a sostegno della loro esistenza. Dovendo dimostrare al consumatore quale fosse l’impatto zero, quale fossero i vantaggi di questo prodotto, effettivamente non c’era una prova concreta e chiara, non c’erano certificazioni di terze parti, non c’era un vero e proprio sistema di tracciabilità. Quindi è diventato un po’ complicato riuscire a spiegare il perché ci fosse questo vantaggio. Abbiamo quindi deciso di fare un lavoro anche di rebranding da un punto di vista comunicativo, quindi lavorando sia con il reparto comunicazione sia chiaramente il reparto produzione e tutto il sistema di tracciabilità per supportare l’azienda e capire effettivamente come modificare questo problema. Perché purtroppo anche avendo prodotti effettivamente sostenibili è necessario avere anche tutta una struttura interna che lo riesca a di mostrare. È questo che diventa un pochino difficile capire per certe aziende e certe realtà e quindi cerchiamo un po’ di sensibilizzare e supportare in questo senso. Anche le nuove normative sicuramente stanno aiutando per far comprendere queste dinamiche”.
Camilla: “Sì, abbiamo seguito diversi casi, sicuramente un caso che possiamo ritenere emblematico è stato quello di un brand tessile. Si occupava appunto di moda, e utilizzava degli slogan riferiti ai propri prodotti, proponendoli come sostenibili a impatto zero, quindi tutta una serie di requisiti sicuramente al giorno d’oggi molto interessanti per chi si interessa di sostenibilità. Il problema di questo brand non era tanto effettivamente la presenza di queste qualità quanto la mancanza di prove a sostegno della loro esistenza. Dovendo dimostrare al consumatore quale fosse l’impatto zero, quale fossero i vantaggi di questo prodotto, effettivamente non c’era una prova concreta e chiara, non c’erano certificazioni di terze parti, non c’era un vero e proprio sistema di tracciabilità. Quindi è diventato un po’ complicato riuscire a spiegare il perché ci fosse questo vantaggio. Abbiamo quindi deciso di fare un lavoro anche di rebranding da un punto di vista comunicativo, quindi lavorando sia con il reparto comunicazione sia chiaramente il reparto produzione e tutto il sistema di tracciabilità per supportare l’azienda e capire effettivamente come modificare questo problema. Perché purtroppo anche avendo prodotti effettivamente sostenibili è necessario avere anche tutta una struttura interna che lo riesca a di mostrare. È questo che diventa un pochino difficile capire per certe aziende e certe realtà e quindi cerchiamo un po’ di sensibilizzare e supportare in questo senso. Anche le nuove normative sicuramente stanno aiutando per far comprendere queste dinamiche”.
Isabella: “Tra l’altro in questo caso un elemento molto importante, un aggravante di tutta questa situazione è stato dato dal fatto che un’associazione di ambientalisti avesse segnalato sia tramite mail direttamente all’azienda, sia tramite recensioni su vari piattaforme, proprio questa condotta ingannevole, queste affermazioni false, comunque fuorvianti o ritenute poco trasparenti. Quindi anche in questo senso poi va da sé che abbiamo dovuto fare un lavoro sulla credibilità del marchio che rischiava di andare un po’ persa e quindi il lavoro di raccolta dei dati e raccolta di prove concrete ha aiutato a difendersi in questo senso”.
Quindi man mano che un piccolo brand acquisisce la visibilità comunque insomma deve sempre prestare più attenzione perché si arriva a entrare nell’occhio del mirino anche di associazioni che difendono questo tipo di cause che vanno a toccare e sono toccate dai claim che i brand fanno. È molto interessante questo caso anche perché a volte sembra così lontano che possa accadere, ossia sembra che possa accadere solo alle grandi aziende, grandi nomi che noi spesso citiamo all’interno dei vari canali e invece effettivamente così ci fa rendere idea che è qualcosa di vicino a noi. Avete anche un altro caso da raccontare sempre legato alle normative?
Isabella: “Sì, in realtà è un altro caso interessante che c’è capitato in questo senso riguarda un brand di prodotti cosmetici che sostanzialmente andava a definire i propri prodotti in generale la propria produzione con l’utilizzo di elementi naturali.
Questo aspetto ha creato un pochino di problematiche. Non tanto per l’utilizzo dei materiali che in realtà erano effettivamente prodotti naturali , quanto per il fatto che per un sistema di lavorazione di procedure di produzione questi prodotti non potevano in realtà essere definiti 100% naturali. Tra l’altro in questo caso un altro aspetto che vorremmo portare all’attenzione è che il termine naturale di per sé non vuol dire sostenibile . Un po’ è evoluto nel linguaggio comune il fatto che dire naturale voglia dire sostenibilità, ma in realtà non è proprio così sia da un punto di vista pdi terminologia di sostenibilità e anche da un punto di vista legale, perché in realtà il termine naturale non prevede questa classificazione. Quindi anche questo aspetto è da segnalare perché richiede chiaramente una certa base sotto per poterlo utilizzare”.
Camilla: “Sì diciamo che purtroppo non essendo il termine collegabile direttamente alla parola sostenibilità dall’altra parte anche è vero che la maggior parte dei consumatori purtroppo per fortuna lo pensa e quindi anche in questo senso, da un punto di vista legale, si potrebbe giocare effettivamente su questa cosa. Perché magari il prodotto può essere effettivamente 100% naturale, ipotizziamo, però dall’altra parte si dà comunque un messaggio che può essere ritenuto forviante e quindi già anche con le normative vigenti in questo momento, fin dall’anno scorso, comunque già poteva essere ritenuto problematico l’utilizzo di questo termine . Vediamo adesso che poi ha maggior ragione non si può più utilizzare fondamentalmente però c’è anche questo elemento da considerare nella pubblicità”.
È molto usato, capita spesso di leggere naturale quasi ovunque nei prodotti cosmetici ma capita anche nella moda. Mi succede di trovare scritto in cotone quindi 100% naturale molto spesso ed effettivamente anche per noi che non siamo del vostreo mestiere “naturale” ci evoca subito sostenibile. C’è molto ma molto spesso questa associazione di cui dovremmo parlare di più. Non è in realtà così appropriata , non tutto quello che è naturale e sostenibile e non tutto quello che è sostenibile è naturale Grazie perché è molto interessante anche questo caso
Noi abbiamo raccontato anche di casi di grandi marchi che sono stati oggetto di denunce o di controlli pubblici da parlere autorità per la tutela dei consumatori o da gruppi di consumatori per via di dichiarazioni magari ingannevoli. Abbiamo per esempio assistito alla revoca dell’etichetta Conscious da parte di H&M dell’etichetta Joy Life da parte di Zara e in ugual modo ASOS ha rimosso la linea Responsible Edit . Vi vengono in mente altri casi da menzionare relativi a grandi brand?
Camilla: “Sì, è un caso che ci ricordiamo perché anche questo è stato abbastanza discusso è il caso di Decathlon, per esempio, che aveva utilizzato per diversi prodotti la parola ecodesign . Qualificava i propri prodotti con questo termine, ma in realtà senza specificare effettivamente cosa volesse dire ecodesign o perché rientrasse in questa terminologia. Eco design è anche un regolamento europeo che poi determina quelli che devono essere gli aspetti del prodotto , però un termine così vago senza riferimento alla normativa e senza riferimento alle caratteristiche di sostenibilità risultava fuorviante . Anche per quello nel caso di Decathlon poi è stato rimosso questo termine e hanno attuato tutta un’altra politica . Anche l’utilizzo di parole che rievocano la sostenibilità ma che appunto non vengono poi specificate, cioè non viene indicato perché si utilizzano, può essere considerato fuorviante per il consumatore. Il brand potrebbe non essere poi sostenibile effettivamente o potrebbe esserlo ma non dimostrandolo comunque ricade lo stesso in un problema di comunicazione di percezione”.

È come se non lo fosse, se non è dimostrabile, questo è il punto giusto?
Camilla: “Esattamente, sì. Questo vale ovviamente per la grande azienda come per il piccolo brand perché le regole sono sempre le stesse. Chiaramente più l’azienda è grande e più magari risulta difficile tracciare effettivamente tutto l’iter del prodotto. Magari nasce come una materia prima naturale super sostenibile, poi con il processo si perde. Risulta fondamentale il supporto, il controllo”.
Che cosa si rischia? Quali sono i rischi più comuni per chi ha un brand di moda sostenibile oggi nel 2025 , ma da qui anche all’anno prossimo, a breve?
Isabella: “In linea generale diciamo che il rischio più immediato , proprio nella scelta e nella realizzazione delle campagne pubblicitari e di marketing, è quello da parte dei brand di utilizzare delle asserzioni, degli slogan come può essere 100% sostenibile, 100% green, amico dell’ambiente e via dicendo che siano generiche. Sicuramente molto accattivanti per il marketing ma basate su una mancanza di concretezza . Perché ormai è risaputo che un prodotto 100% sostenibile è impossibile da realizzare, quindi chiaramente già nell’utilizzo di queste asserzioni il rischio principale è quello di ricevere segnalazioni da parte dei consumatori. Perché l’attenzione che adesso hanno i consumatori nei confronti dei temi che riguardano la sostenibilità è altissima . Ci sono proprio associazioni o siti appositi dove i consumatori possono andare a segnalare le condotte e gli utilizzi , la pubblicità di determinati brand. Inoltre, si rischiano chiaramente I controlli dell’autorità, emissioni di sanzioni, il doversi sottoporre a procedure sia di controllo e chiaramente poi emissioni di provvedimenti che non sono soltanto economici, ma sono anche inibitori , ossia possono prevedere la sospensione nei casi più gravi della produzione. Ovviamente anche sanzioni anche economiche. Soprattutto però un danno reputazionale enorme. Questo riguarda sia il piccolo brand che magari si trova in un momento di avviamento della della propria attività, ma riguarda anche la grande azienda. Basta un passo falso purtroppo per finire nel nel ciclone e quindi avere un danno reputazionale molto grande”.
Camilla: “Per un piccolo brand forse risulta quasi ancora più impattante perché soprattutto se all’inizio è vero che molte sanzioni si basano su quello che è il fatturato , quindi sono proporzionate al fatturato e alla gravità del comportamento, per un piccolo brand per quanto il fatturato possa essere basso c’è stato magari un grosso investimento e quindi dall’altra parte queste sanzioni impattano molto e rischiano davvero di bloccare a nascita e la crescita di questa realtà”.
Che è quello che noi vorremmo evitare. Per questo che siamo qui a parlarne oggi in questo episodio e anche in altri contesti . Racconteremo che cosa stiamo facendo insieme. Sentendo voi che raccontate i rischi mi fate venire in mente una massima che un avvocato a cui ci siamo rivolti in passato per una questione legata proprio al podcast. Questa massima che non dimenticherò mai era: “Meglio andare dall’avvocato avvocata prima che dopo”. Quanto è vero! Penso anche all’iniziativa che stiamo proponendo adesso, dove il valore investito in un workshop che ti permette di sapere e conoscere i rischi e come evitarli , le normative che sono in atto, questo valore è sicuramente almeno dieci volte meno il costo di magari molte interventi legali dopo. Per non parlare dei danni reputazionali. Meglio informarsi prima che dopo più che mai vale anche in questo caso.
Isabella: “Sì, è sempre meglio muoversi preventivamente. La formazione e la consulenza da parte di consulenti esperti in sostenibilità o legali, in generale chi si occupa di queste cose, è fondamentale per prevenire. Anche perché la direzione dei legislatori sia nazionale sia europeo , e in generale internazionale, è chiara. Un brand che sia piccolo o grande che si muove in quella direzione non solo evita, come giustamente dicevi tu, danni importanti anche a livello economico, ma diventerà anche più competitivo. Perché tanto è un cambiamento comunque che sarà inevitabile . Le normative ormai se non sono già entrate in vigore lo diventeranno a breve. Entro diciamo dalla fine del 2025 al 2030, la maggior parte delle normative entreranno in vigore e quindi bisogna farsi trovare pronti proprio per essere più competitivi sul mercato”.
Camilla: “Tutto rientra sappiamo bene nel pacchetto di normative del Green Deal europeo , però con tantissimi Stati singoli che si sono già mossi in anticipo. Vediamo la Francia che è sempre stata un po’ pioniera in questo senso, l’Italia magari un pochino più in coda. Da un punto di vista anche non strettamente normativo però, ma di linee guida e di migliori pratiche, anche l’Italia si sta assolutamente muovendo. Dal punto di vista pubblicitario per esempio abbiamo visto che anche l’IPA (ndr: Istituto Autodisciplina Pubblicitaria) si è mosso dando già dei riferimenti rispetto al greenwashing, normato recentemente. Oppure per esempio anche la Camera Nazionale della Moda ha elaborato una serie di linee guida abbastanza corpose che danno delle indicazioni pratiche per i brand , anche non strettamente riferite alle normative ma per iniziare un cambiamento che prima poteva essere lento che adesso è necessariamente diventa molto veloce. 5 anni non sono niente e massimo massimo nel 2030 tutte le normative, anche quelle di cui si sta ancora discutendo, entreranno in vigore. Quindi muoversi è assolutamente necessario”.
Per chi già un brand, ma anche per chi lo sta avviando, come dicevate prima. Anche perché per chi lo sta avviando è proprio logico da subito metter in atto qualcosa che sarà da qui a 5 anni. Avere la certificazione è sufficiente? Ci garantisce di essere in regola, di evitare rischi e sanzioni?
Isabella: “Diciamo che la certificazione è sicuramente un elemento utile e un elemento di grande valore , perché va da sé lo dice già il nome certifica un determinato procedimento e una determinata produzione. Tuttavia non è un elemento sufficiente per poter dire il brand o l’impresa è tutelata al 100%. Questo perché innanzitutto ci sono certificazioni e certificazioni , più rigide e meno rigide, che quindi richiedono controlli, procedimenti da parte delle autorità differenti, e ci sono quelle che hanno più o meno valore a livello di tutela. Ci sono le certificazioni che vengono autoprodotte, che quindi hanno un valore differente da una certificazione che viene da un ente imparziale, un ente terzo ovviamente . Su questo vediamo che ci sono in realtà diverse autocertificazioni che vengono pubblicizzate in un certo modo, ma in realtà bisogna anche qua fare molta attenzione. Perché le normative che sono in vigore adesso e che entreranno in vigore prevedono proprio il valore certo e verificabile da certificazione soltanto se provviene da un ente al di fuori dell’attività produttiva, un ente imparziale e quindi anche su questo.dobbiamo fare attenzione”.
 Camilla: “Abbiamo visto diverse aziende anche abbastanza strutturate che hanno prodotto delle autocertificazioni, sicuramente con degli esperti, tutto utile, però non sufficiente. Perché l’autocertificazione vale quello che vale. Dall’altra parte bisogna anche dire che la certificazione può non essere sufficiente, anche perché ci sono tante certificazioni che qualificano il prodotto. Dicevamo prima per esempio come naturale, penso anche al cotone biologico, però poi bisogna anche vedere quali sono gli altri prodotti proposti dall’azienda, quali sono gli altri impatti che l’azienda ha sull’ambiente. Avere un prodotto certificato per determinati requisiti non comporta automaticamente la sostenibilità, perché per esempio poi su tutto il resto non si è effettivamente sostenibili. Poi parliamo tantissimo di sostenibilità ambientale che è un po’ il focus, è anche la parte più forse difficile in questo momento da gestire, però ricordiamoci che la sostenibilità è anche sociale, è anche economica. Quindi magari una certificazione è rispetto all’essere green, poi dall’altra parte poco si concilia con la sostenibilità sociale, con la parità sul luogo di lavoro, tutta una serie insomma di problematiche che invece devono essere evalutate, perché la sostenibilità è a 360 gradi”.
Camilla: “Abbiamo visto diverse aziende anche abbastanza strutturate che hanno prodotto delle autocertificazioni, sicuramente con degli esperti, tutto utile, però non sufficiente. Perché l’autocertificazione vale quello che vale. Dall’altra parte bisogna anche dire che la certificazione può non essere sufficiente, anche perché ci sono tante certificazioni che qualificano il prodotto. Dicevamo prima per esempio come naturale, penso anche al cotone biologico, però poi bisogna anche vedere quali sono gli altri prodotti proposti dall’azienda, quali sono gli altri impatti che l’azienda ha sull’ambiente. Avere un prodotto certificato per determinati requisiti non comporta automaticamente la sostenibilità, perché per esempio poi su tutto il resto non si è effettivamente sostenibili. Poi parliamo tantissimo di sostenibilità ambientale che è un po’ il focus, è anche la parte più forse difficile in questo momento da gestire, però ricordiamoci che la sostenibilità è anche sociale, è anche economica. Quindi magari una certificazione è rispetto all’essere green, poi dall’altra parte poco si concilia con la sostenibilità sociale, con la parità sul luogo di lavoro, tutta una serie insomma di problematiche che invece devono essere evalutate, perché la sostenibilità è a 360 gradi”.
Grazie per averlo ricordato, perché questo è un concetto fondamentale che più ne parliamo più ne raccontiamo e meglio è. Mi fa venire in mente un’altra domanda, perché abbiamo toccato il tema del green washing, nella parte di comunicazione. Oltre tutto quello che riguarda l’impatto ambientale, in realtà i rischi ci sono anche quando si tocca altri tipi di washing. È una cosa che approfondiremo nel workshop che stiamo proponendo, ma vi chiedo di fare un accenno a questi altri tipi di washing che si possono rischiare.
Isabella: “In realtà negli ultimi anni si sono andati a classificare diverse tipologie di washing. Abbiamo il green washing di cui abbiamo parlato adesso. Abbiamo il pink washing, quel tipo di fenomeno per cui si sfruttano determinati periodi dell’anno , solitamente attorno a novembre, quando c’è la giornata contro la violenza sulle donne. Quel tipo di pubblicità che sfrutta il sostegno ai diritti delle donne o in generale ai diritti delle donne alle opportunità lavorative, pari accesso alle opportunità lavorative, per dare lustro ai propri prodotti o alle proprie campagne marketing. Stessa cosa vale per il rainbow washing, quindi per il sostegno alla comunità LGBTQIA+ che sfrutta spesso colori, quindi bandiera arcobaleno, per modificare il packaging dei prodotti per far associare al consumatore quel prodotto al sostegno per la determinata comunità. Potremmo veramente elencare tantissimi di fenomeni di washing”.
Camilla: “Riguarda anche minoranze etniche, ma abbiamo visto anche in altri casi dove viene promosso un supporto allo sport per esempio e poi effettivamente non c’è. Tantissimi tipi di washing, pubblicità effettivamente ingannevole, perché si parla di casi in cui si professa un supporto che poi però nel concreto non esiste. Torniamo sempre un po’ allo stesso discorso, di riuscire a dimostrare, avere delle prove concrete del supporto, dell’impegno che effettivamente l’azienda o il piccolo brand vuole dare a determinate categorie di persone o a determinate tipologie di benessere ambientale, sociale. Abbiamo visto nel caso del rainbow washing per esempio Primark. È stato molto attaccato proprio perché aveva preparato tutta questa campagna molto accattivante, che effettivamente dava impressione di un sostegno importante alla comunità, però dall’altra parte poi ha iniziato una collaborazione con la Turchia e altri Stati dove in realtà i diritti della comunità LGBTQIA+ non sono effettivamente così tutelati. Quindi si è creato questo contrasto che non ha fatto piacere al pubblico, che anzi ha segnalato la condotta. Da un punto di vista reputazionale è stato abbastanza pesante. Il caso Primark è stato emblematico rispetto al rainbow washing”.
Grazie per aver fatto un esempio più chiaro di che cosa si intende e che cosa quando si rischia quando si entra in una zona un po’ delicata, e che cosa voglia dire evitare anche questo tipo di rischi.
Le normative secondo voi aiutano oppure complicano il lavoro dei brand che sono sostenibili? Sono un freno oppure rappresentano una spinta per la moda sostenibile? Cosa ne pensate?
Isabella: “Noi da avvocate pensiamo che sicuramente a primo impatto le normative, soprattutto in un momento come adesso dove possono risultare molte e possono risultare frammentarie, possono generare molta confusione. A un primo impatto possono sembrare proprio un ostacolo alla produzione, alla messa sul mercato, alla la libertà di comunicazione. In realtà il sistema mondiale ormai parla chiaro: ci troviamo in un momento dove necessariamente un cambio di direzione deve essere fatto, riguardo alla sovraproduzione, la produzione eccessiva, la mancanza di un sistema di riciclaggio che consenta un impatto ambientale più basso. La direzione è chiara come dicevamo prima. Se il brand o l’azienda decide di muoversi in questa direzione ed è una decisione in realtà inevitabile, perché prima o poi va fatta per tutti, questo permetterà di essere più competitivi. Noi consigliamo non perché siamo avvocati ma in generale, di fare questi passi, di decidere di mettere a norma, di regolamentare la propria produzione. Se fatto a fianco dei consulenti, di consulenti di sostenibilità o dei legali aiuta proprio step by step a creare un procedimento che sia, oltre che sostenibile proprio per il brand stesso a livello economico, a livello di investimento, che consenta anche di attuare tutti quei passi che poi permettono di essere tutelati, di lavorare in tranquillità, di sfruttare il marketing della pubblicità, ma di farlo nel modo corretto. Oltre che per essere protetti dal punto di vista legale anche per essere competitivi e reali, ossia dare dati concreti, dati veri”.
Camilla: “Paradossalmente forse la normativa è vero che è molto varia e abbondante, soprattutto nell’ultimo periodo, ma dall’altra parte consente effettivamente di avere delle linee in guida molto concrete, molto specifiche che prima non esistevano. P rima vigeva un po’ questa libertà per cui ognuno faceva quello che voleva ed eravamo tutti sostenibili, mettiamola così. Invece questo consente effettivamente di qualificare le aziende che lo sono veramente e dare un valore aggiunto e anche consentire all’azienda di capire cosa vuol dire essere sostenibili. Sono un pochino complesse, vanno analizzate e sicuramente il supporto di consulenti esterni aiuta, ma questo investimento ritorna assolutamente in tutto quello che è una reputazione, la comunicazione, il benessere sia dell’azienda sia della società”.
 Ci sentiamo anche noi, in quanto consumatori un po’ più tutelati, che ci potremmo fidare un pochino di più in futuro di quello che le aziende ci dicono, sapendo che c’è un sistema che guida e che ci tuttela da questo punto di vista. A prescindere dalle normative e dal rischio delle sanzioni, secondo voi le azioni che sono proposte dalla regolamentazione italiana ed europea sono in ogni caso dei passi che ci mostrano da parte dell’azienda un impegno serio e credibile? Cosa ne pensate?
Ci sentiamo anche noi, in quanto consumatori un po’ più tutelati, che ci potremmo fidare un pochino di più in futuro di quello che le aziende ci dicono, sapendo che c’è un sistema che guida e che ci tuttela da questo punto di vista. A prescindere dalle normative e dal rischio delle sanzioni, secondo voi le azioni che sono proposte dalla regolamentazione italiana ed europea sono in ogni caso dei passi che ci mostrano da parte dell’azienda un impegno serio e credibile? Cosa ne pensate?
Camilla: “Sicuramente sì, perché danno queste indicazioni sulla certezza delle informazioni che vengono date e questo a prescindere da quello che la normativa è fondamentale, perché il consumatore possa fare una scelta consapevole, libera e quindi scegliere di supportare aziende che si impegnano concretamente nella loro attività. Questo è sicuramente un passo avanti, aiuta a prescindere da quello che è il rischio di sanzioni. Chiaramente un’azienda dovrebbe scegliere di fare questi passi a prescindere dalla paura, dal pericolo ma per un impegno concreto verso l’ambiente, però anche chi ha maggiori difficoltà a comprendere alcune dinamiche la normativa può aiutare”.
Sono passi utili quelli di prevedere come trattare alla fine del ciclo di vita i tessuti o introdurre un passaporto digitale o progettare un capo con in mente la fine del ciclo di vita secondo voi? Non è che solo perché le normative ce lo dicono, ma effettivamente tutte queste iniziative all’interno del quadro regale vanno in una direzione sensata?
Isabella: “Sì, assolutamente ha un senso e la direzione intrapresa è chiara in generale. A nostro parere c’è l’attenzione che aumenta sempre più nel consumatore, nelle associazioni ma anche da parte comunque delle aziende stesse, dei brand. È tutta canalizzata nella stessa direzione”.
Abbiamo anticipato del workshop che stiamo organizzando insieme. A noi fa piacere lanciare questa iniziativa proprio perché desideriamo che le piccole e medie realtà siano anche loro informate e pronte a trovarsi in linea con il quadro normativo. E non solo: all’interno del workshop toccheremo anche la parte di strategia di sostenibilità, quindi abbiamo le due parti, legale e strategica. Vedremo tutte le varie fasi della produzione e anche della vendita e quello che segue dopo di un capo, un accessorio di moda, come in tutte queste varie fasi si possa migliorare il proprio il proprio impatto ambientale e sociale.
Per saperne di più, clicca qui.

 
		 
		 
		

